La lezione di Eugenio Garin
di Maurizio Torrini
Negli
ultimi anni della sua vita, quando con ritrosia era portato a farne
un sobrio bilancio, Eugenio Garin insisteva a dire di essere stato
soprattutto un insegnante. «Ho sempre insegnato», ripeteva. E
insegnante lo era stato da giovanissimo, appena ventenne, dei
giovani della scuola di avviamento al lavoro di Fucecchio, delle
‘ragazze di buona famiglia' delle Mantellate di Firenze, alle quali
faceva lezione sorvegliato, giovinetto tra giovinette, da una severa
suorina, dei suoi quasi coetanei del Liceo Cannizzaro di Palermo,
ventiduenne nel 1931, poi di quelli del Liceo scientifico Leonardo
da Vinci di Firenze, mentre, precoce in tutto, sostituiva uno dei
suoi maestri, Francesco De Sarlo, nell'insegnamento universitario di
Filosofia teoretica nel 1935, appena ventiseienne. Aveva, insomma,
sempre insegnato e, come si dice, in ogni ordine di scuola
dall'università in già. Non saprei dire di Garin insegnante di
liceo. Vorrei dire solo qualcosa di Garin docente universitario.
Credo che ognuno possa sostenere, e con ragione, di aver conosciuto
e di aver avuto un suo Garin. Non già perché egli avesse la
facoltà di adattarsi a chi per dovere o per diletto lo volesse
ascoltare. Anzi. Ma perché ciascuno era messo in grado di reagire a
quell'incontro con il proprio carattere, con la propria formazione,
con le proprie attese. In altre parole egli non intendeva plasmare
l'ascoltatore, ma solo offrire occasioni, occasioni cui ognuno
doveva e poteva rispondere a suo modo, liberamente. Non che il suo
insegnamento fosse univoco, uguale dappertutto e per tutti: era un
insegnante troppo navigato per sapere che una cosa era far lezione
agli studenti di Lettere e filosofia assieme, un'altra ai soli
filosofi, come ci chiamava, un'altra cosa ancora ai laureati e
laureandi.
Sapeva bene che era diverso rivolgersi ai colleghi in un convegno di
studio, o parlare in una casa del popolo, oppure rivolgersi a tutti,
ai cittadini, come spesso gli è capitato proprio qui nel Palazzo
Vecchio della sua Firenze. Cambiavano i contenuti, mutavano i toni,
mai il carattere, l'alta professionalità , medesima sempre la
passione. Eugenio Garin non ha mai spezzettato il pane della
cultura: ovunque, o a chiunque avesse da parlare o da insegnare, lo
sconosciuto studente che si presentava all'esame, l'amico e collega,
lo studioso straniero, il giovane laureato, tutti meritavano sempre
la stessa attenzione, il medesimo trattamento. Sì che nella sua
produzione letteraria le conferenze lincee e le lezioni al Collège
di Francia stanno insieme agli scritti, diciamo, d'occasione, senza
che il lettore ne colga, se non con l'aiuto di riferimenti
bibliografici, la loro provenienza e la loro destinazione.
Niente gli era più alieno, fisicamente e metaforicamente,
dell'espressione ‘prendere per mano'. Garin non prendeva per mano
nessuno: apriva un libro, i cui capitoli andava narrando di volta in
volta. Un libro sempre nuovo. Per chi sapeva apprezzarlo, quel libro
conduceva a altri libri, poi a una collana, infine a una biblioteca,
spesso la sua. Un libro somigliante a quello di un autore a lui
carissimo, Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristan
Shandy, fatto di parentesi, di divagazioni apparenti, di vie
traverse che sembrano far perdere di vista il contenuto promesso
fino a farlo dimenticare, ma che in realtà indicano tutto ciò che è
necessario per cominciare, più tardi altrove, la lettura. Come in un
libro ciascuno, per proprio conto, doveva specchiarvisi, trovarvi,
se volete, la propria strada, senza ammiccamenti né scorciatoie. E
come con un libro, ciascuno instaurava con lui un rapporto
individuale: per quanto paradossale, la sua lezione non consentiva
alcuna lettura corale, alcuna possibilità di dispense, alcuna
versione ufficiale.
Considerava la cultura, lo ha scritto, la «conquista di una più
profonda coscienza di sé». E l'università era cultura. In questo
senso il suo non è mai stato un insegnamento demagogicamente
democratico, né si è mai considerato un missionario, né ha
considerato il proprio lavoro una missione. Piuttosto un
funzionario, come amò talora definirsi, civettando con il motivo del
trasferimento della sua famiglia a Firenze, che assicurava un
viaggio su un treno sicuro, tecnicamente aggiornato, ben condotto,
ma che, al pari di un capotreno, non era, e non si considerava, poi
responsabile se i viaggiatori scendevano alle stazioni intermedie e
prendevano altre direzioni. Non credo si sia mai sentito coinvolto
nelle scelte altrui, né voleva esserlo. Non si prestava, pur
avendone le doti, a essere il pifferaio fascinatore di candide
giovinette e di timidi giovinotti. Lo avrebbe considerato un
tradimento, un traviamento del suo compito, che era appunto, e solo,
quello di insegnare la filosofia, di insegnare a capirne la storia,
di fare cultura, ma sempre altro da convincere o da portare su una
strada che non fosse già in qualche modo segnata, e segnata
individualmente, in chi lo ascoltava.
Un pescatore anche, ma un pescatore che gettava reti larghe e
profonde nelle quali si aspettava che i pesci entrassero
spontaneamente, mai che venissero catturati. I suoi pesci erano e
dovevano essere studenti maturi – non venivano infatti da un esame
che ne aveva certificato proprio la maturità ? – che egli considerava
suoi pari, almeno per quel che riguarda il cartesiano bon sens,
la bona mens, la cosa più diffusa e più equamente distribuita
tra gli uomini, sì che la differenza tra lui e noi riguardava,
galileianamente, l'estensione del sapere, non la capacità di
comprendere. Il severo, severissimo Garin, che tanto spaventava le
matricole, era un benevolo confessore dell'ignoranza dei suoi
studenti. E quelli più maturi imparavano subito che la migliore
risposta alle domande che fioccavano in aula era quella di
confessarla subito quella ignoranza, anche quando si era quasi
sicuri della risposta (ma chi era sicuro di fronte a Garin?).
Certo, quell'estensione del sapere costituiva una barriera, una
differenza di cui era consapevole lui e consapevoli noi, una
barriera quantitativa, ci faceva credere, scalabile e riducibile,
quasi come una differenza di età , mai come un'inattingibile
diversità , che mai si trasformava in paternalistica condiscendenza.
Quella barriera si sgretolava nella generosa disponibilità a fornire
indicazioni e libri, al reiterato prestarsi a spiegare non solo le
tematiche del proprio corso, ma a offrirsi di guidare piccoli gruppi
alla lettura dei testi (Hegel, Kant o Husserl) dei corsi di altri
colleghi che ci risultassero particolarmente difficili. Il grande
intellettuale non dimenticava in nessuna occasione la sua
professione: non solo nel rigido adempimento dei suoi obblighi di
docente, nella proverbiale puntualità , nella scrupolosa preparazione
dei corsi (i ‘bauli' di libri che partivano anzitempo per la
montagna), nella paziente e tanto prodiga lettura dei capitoli delle
tesi di laurea, nella curiosità con cui ogni anno rinnovava
l'incontro con i suoi giovani interlocutori. Aveva trasformato una
precoce vocazione in una professione, in un affetto per il proprio
lavoro, prima ancora che per chi dovesse usufruirne, in una
disciplina che scherzosamente attribuiva alle lontane origini
savoiarde, ma che forse è la chiave per cogliere la sua
straordinaria e mai dismessa operosità , la freschezza di ogni suo
intervento.
Eugenio Garin non è mai stato altro che un insegnante: poche,
modeste e occasionali le cariche accademiche, nelle quali emergevano
un'insofferenza e una scontrosità imprevedibili nel professore,
altrettanto rare quelle istituzionali o editoriali e solo al
termine, o quasi, della sua carriera scolastica, nessuna,
ovviamente, carica politica, in un uomo che aveva, come sapete, una
grande e perdurante passione civile, per la sua scuola, per la sua
città , per il suo paese. Credo che nulla gli sarebbe apparso più
estraneo e spiacevole di esser considerato a capo di qualcosa, fosse
un istituto, una rivista o una cordata accademica. Di fatto non c'è
mai stata una scuola di Garin, ci sono stati, e ci sono, tanti che
hanno studiato e si sono laureati con lui, che hanno lavorato con
lui, che hanno condiviso aspetti e momenti del suo lavoro, che si
sono incontrati con lui, ma niente di più. Incauti giovinetti,
invidiavamo gli allievi di Dal Pra, che il maestro radunava a S.
Margherita o sul lago di Garda, cui apriva la «Rivista critica di
storia della filosofia», la collana del centro milanese di storia
del pensiero scientifico e filosofico. O quelli di Paci, che si
ritrovavano su «aut aut», che si incontravano nelle edizioni del
Saggiatore, ricordavamo e riconoscevamo quelli di Banfi o quelli
emergenti di Geymonat, che attendevano a imponenti opere collettive,
e tanti altri che andavano sorgendo vicino e lontano. Garin non
aveva nulla: non ha mai diretto opere collettive, non ha mai
organizzato convegni né li ha fatti organizzare, mai collane
editoriali. Quando ciò è avvenuto, in tarda età , con l'Istituto
Nazionale del Rinascimento o con il «Giornale critico della
filosofia italiana», tutto si è potuto e si può dire, fuori che
fossero espressioni di una scuola o di un gruppo che in lui si
riconoscesse o che in lui fosse riconoscibile. Neanche quando alla
Scuola Normale di Pisa gli si è offerta l'opportunità di cogliere
ancora una volta una straordinaria e entusiasta messe di giovani
studiosi, è venuto meno il carattere del suo insegnamento. Là, come
in S. Marco e poi in Piazza Brunelleschi, non ha mancato di offrire
opportunità , un'occasione irripetibile, anzi, generosamente resa
disponibile, ma sempre e solo per chi aveva modo e voglia di
coglierla e di realizzarne le potenzialità , ma lasciando a ciascuno
la libertà di decidere, di interpretare quell'incontro, di farne ciò
che voleva. Il severo Garin non rimproverava mai: non gli sarebbe
mai venuto in mente di riprenderci, come capitava al suo amico e
collega Cantimori o al più giovane Ragionieri, se mancavamo a una
seduta di seminario e venivamo sorpresi in biblioteca o, peggio, al
bar. Ma neppure gli sarebbe venuto in mente di portarci nello stesso
bar a prendere un aperitivo o un caffè, come capitava spesso con
Cantimori e occasionalmente con Ragionieri.
Non voleva essere né un padre, né un maestro di vita. Non credo
neppure che volesse additarci un modello: era piuttosto una lezione
di maturità , di piena e consapevole democrazia intesa come rigoroso
rispetto dei ruoli, quella a cui ci chiamava, e che per molti era
anche la prima. Il suo dovere era quello di insegnare, del nostro
dovevamo rispondere noi. Scendeva dalla cattedra per aiutarci a
leggere un testo, per offrirci un'indicazione, per mostrarci un
passo di un libro, sedeva tra noi a discutere di Cartesio o di
Platone, e la lezione poteva proseguire nella Biblioteca di Facoltà ,
o vicino ai tavoli della Nazionale o tra i libri di Seeber, ma senza
mai abdicare alla sua funzione: non sarebbe mai sceso a discutere
con noi il corso dell'anno seguente, la sua organizzazione, le sue
modalità . A ciascuno il suo. Non discuteva le nostre scelte di vita,
i propositi di lavoro, le carriere. Li considerava su un altro
piano, nel quale l'insegnante non doveva né poteva intromettersi: li
accettava. Al massimo inarcava le ciglia, come nei lavori che gli
sottoponevamo, e abbiamo continuato a sottoporgli, quando un
impercettibile segno di lapis segnalava i dubbi e gli errori di
sintassi. Cittadino di forti passioni civili, le lasciava tutte,
fuorché quella di insegnare, fuori dall'aula. Era facile sapere come
la pensava, lo leggevamo su «Paese sera», su «l'Unità », su
«Rinascita», lo seguivamo nelle Case del popolo, al Circolo di
cultura, ma non si è mai innescata, con lui, una forma qualsiasi di
intesa, di complicità , oserei dire, che prescindesse da quella unica
e prevalente di insegnante e studente.
Garin ci ha lasciato centinaia, migliaia di pagine in cui ci ha
insegnato come ricostruire figure di pensatori grandi e piccoli, da
Elia Astorini a Cartesio, da Antonio Cittadini a Giovanni Pico della
Mirandola. Ha ricostruito squarci del nostro passato culturale e
civile, da Croce a Gentile, da Gramsci a Labriola, da Gino Capponi a
Pasquale Villari, ci ha dato testi e momenti del nostro passato
filosofico che hanno costituito e costituiscono un'eredità operante,
viva e vitale per ognuno che voglia fare una professione simile alla
sua. Non ci ha potuto lasciare, ed è purtroppo destinato a perdersi,
quello che gli pareva più importante: la sua lezione.
Mi accorgo, nel concludere, di aver ricordato una scuola,
un'università che non c'è più. Non saprei dire se l'attuale, nella
quale molti di noi si trovano ora, sia migliore o peggiore di
quella. Mi auguro, e lo auguro soprattutto ai più giovani, di
potervi incontrare ancora un insegnante come Eugenio Garin.
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